È il bracciante morto dissanguato nel giugno dell’anno scorso per un incidente sul lavoro. Si tranciò un braccio e il padrone scaricò entrambi davanti a casa, lui e il suo braccio. Una cosa orrenda, inconcepibile, disumana.
Ieri è cominciato il processo al “datore di lavoro” che lo ha abbandonato. Un processo che, si spera, possa rendere giustizia a Satnam Singh e alla sua famiglia. Intanto, dopo un anno di oblio, forse si ricomincerà a sussurrare qualcosa anche sulle condizioni inumane nelle quali sono costretti tantissimi braccianti (e non solo) prevalentemente stranieri. Satnam Singh era uno di questi, lavorava in nero, senza tutele, come uno schiavo, sfruttato al massimo livello. Non una persona ma una “cosa” da usare e poi, se reputata non più produttiva, buttare via.
La morte di Satnam Singh è solo la punta dell’iceberg. Una situazione raccapricciante che viene accettata in questo “bel paese” nel quale progressivamente si è perduta ogni traccia di umanità, di solidarietà, di coscienza.
Fermiamoci un attimo a riflettere. Stiamo vivendo tempi sempre più oscuri costretti a lavorare per sopravvivere in un sistema in cui questi crimini sono la regola e non l’eccezione. Siamo ormai indifferenti, rassegnati, incapaci di reagire. Possiamo continuare così? Sarebbe giusto nei confronti di Satnam Singh e dei tanti (stranieri e italiani, donne e uomini) come lui? Non sarebbe necessario, forse, alzare la testa e ricominciare a lottare per i diritti di ognuno?
Siamo tutte e tutti sfruttati, senza distinzione di sesso, etnia, cittadinanza, religione, ideali.
Ribelliamoci.