Ergastolo e femminicidio

Il governo ha approvato un disegno di legge che prevede la pena massima per il reato di femminicidio, cioè l’ergastolo. Il provvedimento ha ricevuto il plauso di gran parte delle personalità sia politiche, sia sociali. Per la Presidente del Consiglio la norma rappresenta una sferzata nella lotta a questa intollerabile piaga dei femminicidi.

Ma è proprio così?  Tale misura securitaria riuscirà ad agire come deterrente, tenendo presente che già oggi il crimine in questione comporta spesso la punizione dell’ergastolo? Alla repressione serve affiancare azioni per la prevenzione, la cultura, l’educazione affettiva ed il lavoro. Le donne hanno bisogno di diritti da vive.

La differenza fra il femminicidio e l’omicidio di un uomo è che quest’ultimo quasi sempre viene ucciso per guerre di criminalità organizzata, per vendetta, per difesa, per debiti, per faide ecc., mai perché maschio. Invece, il movente per l’uccisione di una donna si basa sul disvalore intrinseco della discriminazione, dell’odio, dell’asimmetria di potere maschio/femmina.

Intanto, ed è già un grosso limite della norma in questione, le vittime sono definite secondo una logica rigidamente binaria, solo la donna biologica, con esclusione di altre categorie discriminate, quali omosessuali e transgender.

Le scuole che dovrebbero essere capisaldi della parità sono spesso istituzioni del patriarcato effettivo; di solito insegnano ad ascoltare le persone che hanno il potere, uomini o donne che parlano la lingua padre e dicono quindi di non ascoltare la lingua madre, le persone prive di potere, come le donne e non solo.

La stessa scarsità di risorse e di impegno si ritrova nel campo delle azioni positive per mettere in rete tutti i possibili operatori della prevenzione, da quelli sanitari ai Centri Antiviolenza, questi ultimi, peraltro, gravemente penalizzati a seconda della collocazione territoriale. Analogo discorso vale per il tema centrale delle azioni di empowerment, a partire dalla rimozione di quelle differenze, salariali prima di tutto, che frenano autonomia economica, emancipazione e autodeterminazione della donna.

A fronte di questa desolazione, la destra al governo si impossessa della lotta contro il patriarcato e getta sul tavolo l’ennesima risposta puramente repressiva: carcere a vita, automatico e sottratto alla valutazione del giudice, e tanta detenzione in attesa di giudizio. A spaventare “il patriarcato” non sono le pene lunghe, neppure il disumano buttare la chiave, ma l’azione delle donne messe in condizione di reagire, di non subire, di allontanarsi, di ribaltare con determinazione il rapporto di potere sui loro corpi.

A mancare, nel nostro Paese e nel tempo attuale, non è la severità della reazione, ma l’effettiva possibilità di intercettare il disagio prima che esploda.

Se l’ergastolo automatico non dovesse rivelarsi efficace, quale sarà la prossima tappa?

Se alla coppia oppressa/oppressore si sostituisce la coppia vittima/colpevole, il problema del femminicidio sarà sempre un problema individuale e non sociale, risolvibile non attraverso il conflitto sociale e la costruzione alternativa di sistemi di relazioni, ma con una buona dose dei tradizionali strumenti patriarcali di repressione.

Appoggiarsi al patriarcato per ribaltarlo, è qui la contraddizione più grave in cui cade il governo. Ecco perché questa norma si configura come una polpetta avvelenata che non cambia i rapporti fra le persone che vivono in coppia.

Inoltre, il femminicidio è solo l’apice finale di una violenza che si manifesta anche attraverso altri reati, drammatici prodromi: violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, revenge porn, lesioni personali, compreso lo sfregio permanente del volto. Il legislatore è già intervenuto, introducendo nuovi reati ed inasprendo il trattamento sanzionatorio ma i risultati sono, a dire poco, insufficienti a combattere la violenza di genere.

La riflessione da fare è, si ribadisce, di tipo culturale, ossia quella di contrastare un maschilismo tossico che non tollera la perdita di proprietà sul corpo femminile, in un contesto sociale profondamente mutato rispetto ai rapporti patriarcali.

Non basteranno nuove norme penali a contenere i femminicidi, se non saranno le famiglie, gli ambienti scolastici e universitari a fare la loro parte.  Senza scuola che insegna ed educa; senza una famiglia minimamente attenta a certe dinamiche relazionali di rispetto e resilienza; senza modelli culturali validi proposti dalla TV e/o da quegli altri mostri a cento teste dei cosiddetti “social”, che cosa può venirne fuori? 

Vale la convinzione, benché anche a sinistra gli uomini, intesi come maschi, abbiano spesso ancora da fare i conti con i propri ancestrali costumi, che il mix di destra che governa il Paese sia il maggiore ostacolo a qualsiasi ulteriore progresso; e che non sia affatto con l’aggravamento delle pene per i reprobi diventati assassini di donne, mancando di mezzi culturali e psicologici adeguati a gestire anzitutto sé stessi, che si intravede un futuro di eguaglianza.

Oggi certo le cose sono in parte cambiate rispetto al passato; ma resta il fatto che – per una donna che non abbia un lavoro e un reddito, e in Italia sono tantissime, quasi il 50%, – la subordinazione economica al marito fa del matrimonio un legame non libero ma coercitivo. Con tutto ciò che ne deriva in termini di sentimento di possesso da parte dell’uomo che, considerandosi “proprietario” di una donna che mantiene, può sentirsi autorizzato a maltrattarla.

Ma, oltre a puntare il dito sul soggetto, l’ergastolo risolve oggettivamente la questione? Con 100 ergastoli in più all’anno, diminuiranno le violenze? le morti? Il deterrente punitivo estremo sarà sufficiente? È la risposta corretta? La migliore?

Ma si vuole risolvere seriamente alla radice la questione del rispetto nei rapporti di genere, o si vuole solo mettersi “a posto” la coscienza e nascondere la polvere sotto il tappeto?

Si ricorda che la parola femminicidio si è diffusa nella lingua italiana a partire dal 2008 quando è stato pubblicato da Barbara Spinelli un libro con tale titolo. Dalla denuncia sociale si è passati al riconoscimento internazionale. Erano stati i gravi fatti di Ciudad Juarez, la città messicana divenuta dal 1993 teatro di innumerevoli sparizioni e uccisioni di donne, a spingere verso la divulgazione a livello mondiale da una parte e a provocare le lotte e le proteste dei movimenti femministi dall’altra.

Si chiude con lo slogan della comunista Camilla Ravera che curò la tribuna delle donne su «Ordine Nuovo»: “la donna libera dall’uomo, tutti e due liberi dal capitale”.

Liliana Frascati
A.D.O.C.

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