Sul referendum costituzionale

Di Giorgio Raccichini, PCI Fermo

viva la costituzione

Una delle motivazioni frequentemente addotte per giustificare la riforma costituzionale/elettorale è di una vacuità che rasenta il ridicolo, in quanto afferma che la nostra Costituzione sarebbe troppo “vecchia”. Scopriamo cioè che, al pari di un organismo vivente, la Costituzione italiana sarebbe soggetta ad un naturale ciclo vitale di nascita, crescita, invecchiamento e morte: il testo fondamentale della nostra Repubblica sarebbe insomma un tema degno di essere trattato in un documentario naturalistico piuttosto che seguendo le leggi della politica e della Storia. Vien da pensare, seguendo la metafora dell’organismo vivente, che la Costituzione abbia vissuto una vita davvero strana: troppo giovane durante la Prima Repubblica per essere attuata nella sua interezza, è precocemente invecchiata già agli inizi della Seconda Repubblica, venendole così a mancare l’età adulta, quella della piena maturazione e cioè della completa attuazione delle sue parti politicamente e socialmente più avanzate. Nell’età del giovanilismo più sfrenato ciò che viene additato come “vecchio” va cambiato, ringiovanito, sottoposto ad una drastica operazione di chirurgia estetica o per lo meno ad un rinnovo totale del guardaroba. Quelli che non vogliono cambiare sono conservatori non più al passo con le mode giovanili del momento. Al di là di questi ridicoli argomenti, va invece detto che la vita della Costituzione italiana segue gli andamenti della lotta di classe nazionale e internazionale: nato in un momento in cui le classi lavoratrici godevano di grande forza politica, il testo fondamentale della nostra Repubblica rischia di essere stravolto in una fase in cui il conflitto capitale-lavoro volge decisamente a favore del capitale.

Nel documento politico approvato al Congresso costituente del Partito Comunista Italiano emerge una proposta di modifica degli assetti istituzionali molto più chiara, semplice e democratica di quella partorita dal Governo Renzi e dalla sua maggioranza parlamentare. Si tratta di una proposta – quella del Partito Comunista Italiano – che ha le sue radici nelle elaborazioni politiche del vecchio PCI, dal cui seno venivano proposte di monocameralismo associato al sistema elettorale più in sintonia con la Costituzione Italiana e con il suo principio liberal-democratico di “una testa, un voto”: quello del proporzionale puro. Il documento congressuale, infatti, propone un Parlamento monocamerale di 400-500 deputati eletti secondo una legge elettorale senza premi di maggioranza e sbarramenti. Questo assetto comporterebbe una riduzione effettiva del numero dei parlamentari e, allo stesso tempo, un Parlamento inteso come specchio effettivo degli orientamenti politici presenti nella società: ogni forza politica vi sarebbe rappresentata in maniera direttamente proporzionale al consenso di cui gode nella popolazione. Per essere più concreti, se un partito non raggiunge la maggioranza assoluta dei consensi tra i votanti, non può sperare di ottenere la maggioranza assoluta nell’assemblea legislativa, come invece propone l’Italicum renziano e tutte le leggi a questo assimilabili, come la famosa legge truffa del ’53 o la legge Acerbo del ’23. Premi di maggioranza e sbarramenti determinano il furto di seggi parlamentari ai danni di alcuni partiti a favore di altri e la negazione della dignità del voto di molti cittadini che non avranno infatti lo stesso peso elettorale: per eleggere un deputato alcuni partiti avranno bisogno di più voti, altri di meno, come se ogni cittadino avesse un peso elettorale differente, alla faccia del principio di uguaglianza politica. L’Italicum, oltre a prevedere degli sbarramenti, presenta un inaudito premio di maggioranza di lista che, nel migliore dei casi, sarà del 14%, ma che con ogni probabilità sarà molto più elevato, senza alcun limite preciso.

Oggi il capo del Governo, dopo aver più volte con le parole e con i fatti (per esempio i vari voti di fiducia) sostenuto l’immodificabilità dell’Italicum, si è aperto a parzialissime modifiche non meglio precisate; si tratta evidentemente della sostituzione del premio di maggioranza di lista con il premio di maggioranza alla coalizione: un cambiamento che di fatto non modifica granché l’Italicum, ma va ad accontentare forze politiche minori, come NCD, pronte a sostenere fedelmente Renzi. Allo stesso tempo queste irrisorie modifiche vorrebbero silenziare la fronda interna al PD propensa a votare “No” al referendum e a contrastare il “pericolo” di una vittoria al ballottaggio del M5S. Così la legge elettorale non è più una delle basi del funzionamento delle istituzioni democratiche, ma un mero strumento degli interessi di parte.

Il metodo elettorale del proprorzionale puro è sicuramente più democratico e rappresentativo degli orientamenti politici della società. Tuttavia presuppone una grande maturità politica, perché impone di governare il Paese facendo alleanze, accordi e compromessi, a meno che non si abbia il consenso assoluto dei votanti. Il M5S, il quale oggi propone questo sistema elettorale che noi comunisti abbiamo sempre sostenuto, hanno sempre considerato alleanze e compromessi come mali assoluti, comportandosi alla stregua di una di quelle tante forze extra-parlamentari e radicali spuntate continuamente nella storia politica italiana e che hanno in gran parte favorito  la stabilizzazione del sistema politico italiano in senso centrista e conservatore.

A differenza di quanto va dicendo il capo del Governo, cioè che non si voterà per la legge elettorale, è impossibile non legare il voto referendario anche all’Italicum, perché ogni legge elettorale è parte fortemente integrante del funzionamento delle istituzioni. L’Italicum va per esempio a determinare una maggioranza parlamentare molto forte, la quale a sua volta esprimerà un Governo che avrà effettivamente le redini di tutta l’attività parlamentare; non a caso si parla di svolta presidenzialista. La stessa maggioranza parlamentare monopartitica potrà, su indicazione del Governo e delle massime dirigenze del partito, eleggere i rappresentanti di organi molto importanti, soprattutto tre membri della Corte Costituzionale. Altri due membri della Corte Costituzionale verranno eletti dal Senato, ramo del Parlamento che non scomparirà, ma non sarà più eletto direttamente dai cittadini e che, tuttavia, manterrà alcune funzioni legislative importanti, tra le quali in particolar modo la possibilità di votare le leggi di modifica costituzionale e le leggi elettorali. Com’è possibile che un organismo praticamente non elettivo possa decidere su leggi che determinano il funzionamento della nostra democrazia?

Dal momento che accederanno al Senato i rappresentanti politici delle Regioni e i Sindaci dei Capoluoghi regionali, è evidente che il controllo dei principali enti locali determinerà anche il controllo del Senato. Se consideriamo che attualmente è proprio il PD ad esercitare in gran parte questo controllo, allora è evidente che il Presidente del Consiglio ha l’obiettivo di arrivare a tenere saldamente nelle sue mani le redini di tutto il Parlamento. Si potrà obiettare che non c’è certezza che il partito di Renzi avrà alla fine la maggioranza dei seggi nella Camera e nel Senato. Forse è così, ma non è questo il punto che conta. Per la grande borghesia italiana e per organismi internazionali come la NATO o la Commissione europea il Partito Democratico, in particolare con i suoi rapporti di forza interni determinatisi negli ultimi anni, rappresenta uno strumento temporaneo che si sforza di tradurre nella realtà i loro desideri politici. Un tempo furono Forza Italia e il PDL a costituire, almeno in gran parte, questa funzione di rappresentanza politica degli interessi del grande capitale italiano e di organismi  internazionali. Tuttavia, come ogni partito della borghesia, anche il PD, proprio come accadde al PDL, è sacrificabile e sostituibile da altre formazioni politiche funzionali agli interessi dei capitalisti. L’importante è che tali partiti della borghesia possano gestire in modo stabile i poteri parlamentari e governativi, come viene garantito dalla riforma costituzionale ed elettorale renziana. Questo si nasconde dietro la parola d’ordine di “governabilità” ripetuta in maniera assillante dai fautori del “Sì”.

Parlare di “governabilità” non vuol dire assolutamente nulla, se non ci si chiede in nome di quali interessi socio-economici e politici essa viene ricercata. La posizione chiara e netta a favore del “Sì” al referendum della Confindustria può già fornire una risposta a questo interrogativo, così come le prese di posizione internazionali, in primis quelle di colossi fonanziari come JP Morgan e dell’ambasciatore statunitense.

La vittoria del “No”, che darebbe un duro colpo ai riformatori di stampo conservatore e reazionario, sarebbe fondamentale per poter cominciare ad intavolare una seria e larga discussione su ciò che della Costituzione deve essere ancora attuato e su ciò che invece deve essere modificato. Non devono far paura i confronti tra forze politiche e sociali diverse e i compromessi, se questi servono a migliorare le condizioni di vita e ad aumentare i diritti dei lavoratori.

 

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